Non ci sono dubbi tra i cristiani ortodossi, ossia, coloro che credono e obbediscono alla Parola di Dio, che credono nei credo cattolici e che hanno un legame sostanziale con la chiesa antica, se i cristiani debbano cercare di imitare Cristo. Le domande che dobbiamo porci sono: Come imitiamo Cristo e con quale scopo lo facciamo?
Ci sono analogie tra la nostra fede e quella di Cristo, ma dovremmo essere molto cauti nel parlare della fede di Gesù e della nostra come se fossero la stessa cosa.
Non sono la stessa cosa perché Gesù non era un peccatore che aveva bisogno di essere salvato dall’ira di Dio e noi non siamo il Salvatore. Sì, si può dire che Gesù esercitasse fede. Si fidava del suo Padre celeste, ma la fiducia che esercitava non era quella fiducia che noi, per grazia sola (la salvezza e la fede sono un dono), esercitiamo.
La fiducia di Gesù nel Padre celeste non può essere definita un dono. Non è nato con bisogno di rigenerazione (ossia non è nato morto nei peccati e nelle trasgressioni). Non aveva bisogno di essere sollevato spiritualmente dalla morte alla vita. Come abbiamo visto qui e qui nel Catechismo di Heidelberg, Dio Figlio nasce innocente, giusto e santo non per se stesso ma per noi (pro nobis). Tutta la sua giustizia (HC 60) è accreditata ai credenti affinché sia come se loro stessi avessero fatto tutto ciò che egli ha fatto. In Cristo, sola gratia, sola fede, è come se non avessimo mai peccato o avessimo alcun peccato. Gesù si fidava che il Padre avrebbe mantenuto il patto (pactum salutis) che avevano stipulato prima di ogni mondo (Giovanni 17), e che il Padre lo avrebbe giustificato (ossia, che avrebbe riconosciuto la perfezione e la giustizia intrinseca del suo Figlio).
Quando parliamo della nostra fede, parliamo della fede di umani caduti e peccatori.
Non siamo intrinsecamente giusti davanti a Dio. Siamo giusti solo sulla base della giustizia di Cristo imputata. Ecco perché Genesi 15:6, “Abramo credette a Dio e gli fu accreditato come giustizia,” è applicato ripetutamente nel Nuovo Testamento ai credenti, ai cristiani, e non a Cristo. Sì, quando crediamo, stiamo certamente confiando che il nostro Padre manterrà le sue promesse nei nostri confronti, ma quelle promesse ci sono fatte in Cristo e noi preghiamo nel nome di Gesù. Quando Gesù pregava, non aveva bisogno di un Mediatore. Gesù è il Cristo e noi siamo i suoi cristiani. Queste sono due classi distinte.
Ci sono due pericoli nel parlare di imitazione di Cristo: 1) moralismo; 2) moralismo. Lasciate che spieghi. È stato affermato che “cristiano” (Χριστιανός) significa “piccolo Cristo”. Non è del tutto corretto. Significa “seguace di Cristo”. La parola si trova solo tre volte nel Nuovo Testamento (Atti 11:26; 26:28; 1 Pietro 4:16) e non significa mai “piccolo Cristo”. Tuttavia, il fatto che alcuni pensino in questo modo illustra il primo pericolo: la confusione tra il Cristo e il cristiano.
Farlo tende verso l’auto-salvezza, che è impossibile, ed è o il risultato di una negazione della caduta e delle sue conseguenze (pelagianesimo) o una minimizzazione degli effetti della caduta (semi-pelagiani, romanismo, arminianesimo). Nel caso di Pelagio, egli stabilì due grandi esempi che tutti gli esseri umani dovevano seguire: Adamo e Cristo. Negò che “nella caduta di Adamo peccammo tutti.” Affermò che siamo tutti nati Adamo e che possiamo, se lo vogliamo, fare ciò che Adamo non riuscì a fare: obbedire a Dio di nostra volontà verso la gloria.
L’apostolo Paolo, invece, prese una visione molto diversa (vedi Romani capitoli 1-5; Efesini 2:1-4). Secondo Paolo, quando Adamo peccò, noi peccammo in lui e quando morì spiritualmente, anche noi morimmo. Per natura, dopo la caduta, siamo incapaci di fare qualcosa verso la salvezza. Siamo completamente impotenti. Offuscare la linea tra Gesù e il suo popolo crea l’impressione che se solo ci sforzassimo un po’ di più, potremmo imitare Gesù per essere accettati da Dio e ottenere gloria. Nulla potrebbe essere più lontano dalla verità.
Il secondo pericolo è strettamente legato al primo, quello di trasformare Gesù nel primo cristiano.
Friedrich Schleiermacher (1768–1834) fece questo cercando di ridefinire il cristianesimo come il recupero dell’esperienza religiosa di Gesù. Alcuni liberali che lo seguirono, come notò J. Gresham Machen, sfumarono la linea tra Cristo e il cristiano rendendo Gesù il primo “buon cristiano”. Ma non fu così. Egli fece del bene, ma non verso un’utopia terrena, non solo come profeta, ma come Salvatore dei peccatori e inaugurando il regno di Dio. Tuttavia, il regno, nell’interregno, è per lo più invisibile, specialmente per coloro che cercano un regno di potere e gloria prima della consumazione. Gesù deluse Giuda e continua a deludere quelli che continuano a invocare Barabba.
Entrambi questi pericoli sono ben presenti oggi. Da un lato, c’è una reazione contro l’antinomianismo sia reale che percepito che tende a sfumare la linea tra Cristo e Cristiano parlando in modo imprudente della fede di Gesù e della nostra, senza spiegare chiaramente la differenza qualitativa, come se Gesù avesse fede nello stesso senso in cui noi l’abbiamo. Questo è un grande errore. Siamo anche sotto pressione di quelli che, in vari modi, vogliono vedere il cristianesimo espresso in modo più visibile nel mondo in modi concreti. Un secolo dopo, stiamo avendo gli stessi dibattiti sul Vangelo Sociale che avevamo all’inizio del ventesimo secolo. Si dice frequentemente ora che il nostro cristianesimo possa essere visto tanto quanto essere udito. In due parole: uh, no.
Dobbiamo fare alcune distinzioni:
Esiste l’Imitazione di Cristo: La fede ha due occhi; uno guarda ai meriti di Cristo affinché possiamo essere salvati; l’altro alla sua giustizia affinché possiamo essere santificati. Nell’Imitazione ci sono due cose, Azione e Affetto. Azione, perché non basta elogiare e ammirare il modello, ma dobbiamo seguirlo. Affetto, perché non basta perdonare, poiché non possiamo vendicarci. Questo non è un’imitazione sufficiente dell’amore di Cristo; infatti, lui può, se lo desidera, schiacciare i peccatori e distruggerli.
Thomas Adams fece un grande punto. Guardiamo prima ai meriti di Cristo per noi e solo allora dovremmo parlare di imitazione – ma parlarne dobbiamo.
Ci sono distinzioni molto necessarie nel modo in cui parliamo dell’imitazione di Cristo.
È indiscutibilmente vero che i cristiani cercano di imitare Cristo ma, come scrisse Adams, guardiamo a Cristo con due occhi, per così dire. Prima lo guardiamo come Salvatore. Se falliamo in questo, rischiamo di cadere nell’errore sociniano, come notò Samuel Rutherford nel 1655:
La fede sociniana guarda a un martire esemplare che Dio non ha giustamente, ma invano, e senza causa consegnato alla morte il solo per mera libera volontà, mentre ci può essere, e c’è, perdono senza spargimento di sangue: contrariamente a Ebrei 9.22. Rom. 3.24, 25 &c. anche le buone opere compiute in imitazione di Cristo.
Ci sono altri modi per abusare della verità che i cristiani imitano Cristo. Il primo presbiteriano inglese Thomas Cartwright avvertì di uno di essi:
RHEM. 7. [17. Il carattere o il nome.] Come per la perversa imitazione di Cristo, la cui immagine (soprattutto come nel Rood o crocifisso) vede onorata ed esaltata in ogni Chiesa, egli farà adorare la sua immagine (perché questo è l’Anticristo, in emulazione di simile onore, avversario di Cristo), così per ciò che vede tutti i veri cristiani portare il segno della sua Croce sulla fronte, costringerà anche i suoi a possedere un altro marchio, per abolire il segno di Cristo.
L’abuso qui è violare la legge di Dio e giustificare chiamandola “imitazione”. Queste “imitazioni” sono, ovviamente, improprie. Non possiamo fare come vogliamo e chiamarlo “imitazione di Cristo”. Solo lui determina come deve essere adorato e onorato. I tipi di cose di cui si lamentava Cartwright sono emerse dal tentativo medievale di replicare la vita di Cristo, ricerche che non riuscivano ad onorare la distinzione tra il Salvatore e il salvato, tra il Cristo e i suoi cristiani.
Gesù è più di un esempio, ma in certi modi importanti, è un esempio da imitare.
Qui arriviamo all’altro occhio, di cui scrisse Adams. William Perkins ci orienta nella giusta direzione mentre cerchiamo di comprendere come imitiamo Cristo. Non lo facciamo come “piccoli cristiani”, non per essere accettati da Dio, ma perché lui è il Cristo e perché siamo stati accettati. Come tale, solo tramite la sua grazia, attraverso la fede sola, per mezzo dello Spirito siamo uniti a lui. Lo imitiamo così:
Prima, come Cristo Gesù, quando era morto, risorse dalla morte alla vita per il suo proprio potere, così noi, per la sua grazia, in imitazione di Cristo, dobbiamo sforzarci di rialzarci da tutti i nostri peccati, sia originali che attuali, a una nuova vita. Questo è degnamente messo per iscritto dall’Apostolo, dicendo: Siamo sepolti per battesimo nella sua morte, affinché come Cristo fu risuscitato dai morti per la gloria del Padre, così anche noi dobbiamo camminare in novità di vita: e quindi dobbiamo sforzarci di mostrare la stessa potenza in noi ogni giorno, rialzandoci dai nostri peccati personali a una vita rinnovata. Questo deve essere ricordato da noi, perché, anche se molti ascoltano e conoscono questo punto, pochissimi lo praticano.
Cerchiamo di morire al peccato e vivere per Cristo. Questa è la struttura fondamentale della vita cristiana. Perkins chiarì la distinzione tra Cristo e il cristiano. Risorse “con il suo proprio potere”. Ci sforziamo di “rialzarci” metaforicamente dai nostri peccati. Siamo identificati con Cristo nel battesimo, affinché possiamo camminare nella vita nuova, in Cristo. Imitiamo il Salvatore cercando di vivere come persone salvate.
Herman Witsius è anche utile qui:
LXXXIX. Ma tuttavia, poiché è molto desiderabile avere anch’esso un esempio di perfezione di santità sulla terra, Dio non ci ha lasciati senza uno; infatti ha mandato il suo stesso Figlio dal cielo, il quale ci ha lasciato il più luminoso modello di ogni virtù, senza eccezioni, “affinché seguiamo i suoi passi,” 1 Pietro 2:21. Fu parte del ministero profetico di Cristo insegnare non solo a parole, ma con l’esempio della sua vita, affinché sia nelle sue parole sia nelle sue azioni, egli potesse dire: “imparate da me,” Matteo 11:29. L’imitazione di lui è spesso raccomandata dagli apostoli, 1 Cor. 11:1. 1 Tess. 1:6. 1 Giovanni 2:6.
I cristiani devono pensare a se stessi come ai servitori di Cristo che prestano attenzione alla Sua Parola.
Non siamo accettati da Dio a causa delle virtù formate in noi dalla grazia e dalla cooperazione con la grazia. Quella era la teologia medievale e la pietà che i Riformatori e le Chiese Riformate giustamente rifiutarono, ma non rifiutiamo l’idea che Dio formi virtù in noi. Cristo ha dato un esempio per noi. Come notò Witsius, questo è l’insegnamento chiaro delle Scritture.
Tuttavia, ci sono distinzioni da fare nel modo in cui parliamo dell’imitazione di Cristo:
XC. È stato ben osservato da una persona colta che dobbiamo distinguere tra imitazione, per cui siamo detti μιμηται, imitatori di Cristo, 1 Cor. 11:1; e tra seguire, per cui siamo comandati di seguire Cristo; tra “seguimi,” Matteo 16:24, e “seguire dopo di me,” Matteo 10:38. Perché il primo denota una conformità a un esempio: il secondo, l’attenzione di servitori che seguono i loro maestri; il che parole sono generalmente confuse dagli scrittori nella loro lingua, sebbene non dovrebbero esserlo affatto.
La morte che dobbiamo morire è reale ma figurativa. Quando Cristo ci chiamò a prendere la sua croce, non ci stava chiamando (come accade nelle Filippine ogni primavera) a essere inchiodati letteralmente a una croce. Ecco perché non facciamo pellegrinaggi a Gerusalemme per ripercorrere i passi di Cristo. Questo sfiora la superstizione. Dobbiamo camminare sulle sue orme così come obbedì al Padre e amò il suo prossimo. La morte che dobbiamo morire quotidianamente è al peccato.
La norma per la nostra vita cristiana non è, come notato sopra, ciò che noi imaginiamo di dover fare per imitare Cristo. Piuttosto, dobbiamo pensare a noi stessi come ai Suoi servitori che seguono la Sua Parola. Gli obbediamo secondo il suo comando, e lo imitiamo nel modo in cui ci ha istruiti. Mentre cerchiamo di imitarlo, è sempre con la consapevolezza che è lui ad averci salvati e non noi stessi – neppure in cooperazione con la grazia. La nostra imitazione è in riconoscimento della distinzione categorica tra Cristo e Cristiano, Salvatore e salvato.